Quando scriviamo questa recensione (settembre 2013), Philip Roth ha deciso di non pubblicare più. Questa è ovviamente una iattura per chi ha da sempre trovato sollazzo e sollievo nell’opera dello scrittore del New Jersey, soprattutto in quella più spassosa degli anni ’70-’90. “La Controvita” appartiene, appunto, all’epoca Roth-iana precedente alla “trilogia americana”, in cui lo humour avrebbe lasciato il passo a riflessioni a raggio più ampio, decisamente importanti ma decisamente meno buffe.
Questo che recensiamo oggi non è, tuttavia, un lavoro improntato solo sull’ironia e che cerca il sorriso dolce-amaro: è anche un trattato di meta-letteratura, perché (non espressamente, ma evidentemente) parla del rapporto fra scrittore e opera; non a caso, alcune parti del libro sono costituite da un romanzo nel romanzo.
Sembrerebbe tutto molto complicato, ne “La Controvita”. Per sua e nostra fortuna, Roth è uno dei migliori scrittori del secolo scorso (e di questo) e il suo stile e la sua organizzazione rendono quest’impianto fruibile e apprezzabile anche per il lettore meno scafato. Almeno speriamo, perché intendiamo lodare questo romanzo come ci è raramente capitato di fare.
Risulta complicato riassumere la trama di questo divertente lavoro senza togliere al possibile lettore il gusto della sorpresa. Infatti, i colpi di scena e i capovolgimenti di fronte sono continui e si rincorrono nel testo da subito. Nella prima parte succedono alcune cose che assumono un diverso significato già nella seconda. C’è una terza parte in cui quello che è successo nella prima e nella seconda diventa di nuovo qualcosa di diverso. E via andare.
Si può però rivelare che ne “La Controvita” si intrecciano le vicende dello scrittore Nathan Zuckerman (leggi di chi si tratta nel paragrafo “personaggi”) e di suo fratello Henry, che con Nathan va poco d’accordo. Quando scriviamo “si intrecciano le vicende”, non utilizziamo un verbo retorico: le storie s’intrecciano sul serio, nel senso che quello che uno fa si scopre poi essere fatto dall’altro; quello che uno racconta dell’altro è invece accaduto a sé stesso e ascritto al fratello.
Pare una trama intricatissima, ma risulta invece estremamente eccitante, grazie a:
In questo romanzo troviamo un personaggio carissimo a Philip Roth: lo scrittore Nathan Zuckerman. Nathan Zuckerman è l’alter ego di Roth: come Roth è uno scrittore ebreo-americano del New Jersey, come Roth non ha un ottimo rapporto con le fazioni più radicali della comunità ebreo-americana, come Roth non si fa grandi problemi a mettere in prosa gli accadimenti della propria vita privata, includendo (e sottolineando) quelli più intimi e quelli più ridanciani.
Nathan Zuckerman ha a sua volta un alter ego: il fratello Henry. Henry diventa un personaggio per le storie di Zuckerman: è quindi un personaggio di Roth, ma anche un personaggio di Zuckerman. Come personaggio di Zuckerman, Henry è piuttosto risibile nella sua dipendenza dal sesso; come personaggio di Roth, è un po’ meno divertente e più arrabbiato con Nathan, che lo sfrutta come proiezione delle proprie ossessioni.
Si sarà capito che questa ridda di personaggi servono a far passare il messaggio che nella scrittura e, perché no, nella vita, non siamo necessariamente quello che sembriamo, e sono infinite le interpretazioni delle nostre azioni da parte altrui, e da parte di noi stessi.
Pochi mesi prima di questa recensione, Philip Roth si è detto convinto che la letteratura non ha futuro e che la diffusione “virale” (nostro aggettivo) dei video rende il romanzo appetibile sempre a meno persone (per fortuna Paul Auster, interrogato a riguardo, si è detto più ottimista, ricordando la necessità umana di ascoltare la narrazione di storie).
E’ possibile che l’allontanamento di Roth dalla scrittura e dalle sue dure leggi non potesse non essere sostenuto anche da una visione catastrofica rispetto alla letteratura. Entrambi gli argomenti ci spiacciono perché non vorremo mai vivere in un mondo senza, in generale, il romanzo e, in particolare, senza il romanzo di Roth.